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OMICIDIO IN DIRETTA
(SNAKE EYES)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 1 dicembre 1998
 
di Brian de Palma, con Nicholas Cage, Gary Sinise, Carla Gugino (Stati Uniti, 1998)
 
Possiamo credere in ciò che vediamo? Anche un film "spettacolare" come questo può pretendere di rispondere ad un interrogativo del genere.

Opera di evidentissima, clamorosa maestria formale, SNAKE EYES reclama immediatamente un ulteriore motivo di riflessione: esiste qualcosa dietro lo straordinario virtuosismo tecnico di un inventore di forme al culmine della propria carriera? Può, questa eclatante dimostrazione formale assumere un suo significato proprio; oltre il piacere, la dimostrazione di un altissimo savoir-faire artigianale? La risposta è, a mio modo di vedere affermativa. Perché - vecchio bisticcio sulla forma ed il suo contenuto che ha occupato da sempre tanti specialisti, e non solo cinematografici - quando la prima impone in modo prepotente, determinante, creativo (si pensi soltanto ai maestri del barocco) le proprie esigenze, essa assume un suo valore proprio, autonomo. Diventa materia di riflessione, magma in ebollizione all'interno del quale (se governato da una mente lucida e creativa) preoccupazioni, sentimenti, significati si formano e si enunciano.

Dopo i fuochi d'artificio di quella brillante e piuttosto vana operazione pro - Tom Cruise che era MISSION: IMPOSSIBILE, De Palma è quindi ritornato al genere che più gli è congeniale, il thriller. E in 15 minuti di allucinante frenesia inventiva ha messo in scena uno dei prologhi più eccitanti che ci si possa immaginare: in un immenso anfiteatro che funge da sala di spettacolo, all'interno di una casa da giochi e di un albergo di Atlantic City che rappresenteranno lo spazio nel quale si svilupperà tutto il film, in occasione di un incontro di pugilato che mette in palio il titolo mondiale, il campione Tyler finisce inaspettatamente al tappeto. Proprio nell'istante nel quale uno degli spettatori, il ministro della Difesa, viene assassinato da un terrorista arabo. Fine di una giostra infernale, alla De Palma. Ed inizio di un altra faccenda, pure quella tutta alla De Palma.

Perché su cosa si basa, da sempre, la parte migliore del cinema di un autore che, forse troppo a lungo, è stato visto soltanto come un dotatissimo e un po' vuoto seguace del sommo Hitchcock? Sul fascino dell'Illusione. E della contraddizione: quella che permette al cineasta di prendersi gioco dello spettatore, di contraddirne il processo di deduzione logica grazie alla qualità, squisitamente illusoria del proprio sguardo.

Attraverso questo tipo di processo, rovesciando la direzione di quello sguardo, distogliendo gli occhi dello spettatore dai personaggi e dalle situazioni osservate per concentrarsi su "chi", e sul "come" erano state osservate, il regista inizia una lunga contraddizione: quella che consiste nello spiegare allo spettatore che tutto quel ben di dio di verità (apparentemente incontestabile, poiché "fotografata") che gli è stata cosi brillantemente rovesciata addosso è pura illusione.

Operazione seducente, che de Palma compie con lo stesso strapotere, con identico gusto per l'eccesso e la ridondanza dell'esposizione iniziale. A condizione di accettarne le regole, a cominciare dai limiti della verosimiglianza, per finire con quelli della limpidezza delle logiche del racconto, o della lettura psicologica dei personaggi.

Perché non è ormai più, ovviamente, dalle parti della lucidità, dell'organizzazione per non dire della misura che questo mestiere va apprezzato: piuttosto dall'imponenza, quasi sinfonica di un procedimento. Che, risalendo alla fonte di un'osservazione sempre più esasperata, ipermediatizzata di un avvenimento giunge a denunciarne la meccanica. Poche volte un avvenimento è stato osservato da cosi tanti occhi (umani, ma soprattutto tecnologici) come questo straordinario prologo di SNAKE EYES: e poche volte, un numero cosi alto di falsità, di equivoci è risultato da un'osservazione cosi capillare.

Smascherare una manipolazione, smontandone ogni apparenza: riavvolgendo ogni rotella di un meccanismo che, più di ogni altro, era destinato ad illuderci di detenere il segreto della verità.

Allora oggetti, che più di altri servono a deviare la verità: parrucche, occhiali del sole, travestimenti di ogni genere. Ed individui: come il Nicholas Cage iniziale, poliziotto stralunato, profittatore, doppiogiochista insopportabile. Che finisce per assumere un significato del tutto opposto; cosi come succede con tutti coloro che ci parevano rassicuranti.

Gigantesca operazione di voyeurismo, condotta sul filo di un piacere di filmare che si fa abbuffata bulimica: portentosa ed eccessiva, proprio come quello spettacolo esaltato e degradato (il gioco d'azzardo, la corruzione, la doppiezza) che mette in scena.


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